DI STEFANO SICA

“L’invidia è quel sentimento che nasce nell’istante in cui ci si assume la consapevolezza di essere dei falliti”. Oscar Wilde non ci andava tanto per il sottile quando descriveva origini e ragioni di uno di quegli stati d’animo giudicati socialmente tra i più riprovevoli. Eppure così diffusi quando oggetto ne sono soprattutto i vincenti. Con l’approssimarsi del match con quello che resta del “Sorrento calcio”, in costiera tornano d’attualità dibattiti e contraddittori sui trascorsi di Franco Giglio. Ovvero, l’attuale coordinatore del FC che dei rossoneri è stato co-presidente insieme a Tonino Castellano, contribuendo alla storica ed appassionante cavalcata dalla D alla C1. Nonostante tutto, piuttosto che celebrare quel lustro incantevole che al Sorrento aveva restituito gloria e onore, per qualcuno è diventato prioritario da un po’ di tempo a questa parte concentrare le proprie attenzioni sull’addio di Giglio nell’estate del 2008. Ognuno con le sue ricostruzioni fantasiose, lacunose, difettose. Rispettabili sì, ma alterate. Osserviamoli: sono gli stessi che hanno taciuto sulle ultime gestioni scellerate del Sorrento e che, per una stravagante congiunzione empatica, sono silenti (quando non complici) su quella di Damiano Genovese che ne rappresenta la plastica continuità. Blogger, faccendieri, pseudo professionisti e maggiordomi autonominatisi “veri tifosi del Sorrento”: in questa platea da Sancarluccio c’è un po’ di tutto. Sono i moderni Hiroo Onoda, in guerra contro tutti e nonostante tutto. Qualcuno, in un esilarante manoscritto senza domande e vocine dubbiose, disse perentoriamente che il debito del Sorrento calcio non era poi così corposo come si voleva far credere. Dimenticando forse ciò che aveva detto, a microfoni aperti e funzionanti, tal Pasqualino Vuolo il giorno della presentazione di Genovese, di cui era stretto consigliere: “Qui abbiamo trovato un disastro economico”. Nell’isola degli smemorati succede anche questo.

Ma andiamo avanti. A Giglio vengono rimproverate condotte e modalità con cui produsse il suo commiato da Sorrento in quei mesi difficili del 2008. A quei tempi, l’attuale patron rossonero fu accusato di “alto tradimento” per aver gettato la spugna ed osato abbracciare il progetto Juve Stabia. La rivale (calcisticamente parlando) di sempre. E allora facciamolo questo fatidico passo indietro, come è giusto che sia. Perché di quelle fasi si è scritto poco o nulla, consentendo che nomi, fatti, circostanze e sfumature si annullassero nel fiume dell’oblio, come il famoso Lete raccontato da Virgilio nell’Eneide, quando le anime defunte vi si gettavano alla ricerca della reincarnazione per dimenticare le vite passate. Troppo facile additare il “reprobo”, con le tante leggende metropolitane che poi ne sono seguite. Quando, nella primavera inoltrata del 2008, il Sorrento di Massimo Morgia sta tentando la scalata verso i play-off dopo aver abbandonato la zona retrocessione, c’è già la sensazione che qualcosa si stia rompendo negli equilibri societari. Viene indetta una conferenza congiunta Giglio-Castellano, durante la quale il primo lancia un diktat inequivocabile: “Non possiamo andare avanti da soli. Abbiamo cercato di coinvolgere forze esterne ma, finora, non abbiamo ricevuto risposte. La bacchetta magica non l’abbiamo”. A quei tempi, va sottolineato, la somma elargita sotto forma di sponsorizzazione della Msc è poco più del 10% di quella concessa durante l’era Gambardella. Il progetto di azionariato popolare di Gaetano Mastellone (che, va detto, è lodevole ed innovativo nel suo genere) si mostra debole alla prova dei fatti e non sortisce effetti. Così come tramontano i negoziati con Mario Moxedano e Salvatore Righi per la cessione del club. Giglio, però, non se la sente di alzare bandiera bianca così facilmente. E qualcuno capisce che la sua presenza, per i successi maturati sul campo e la sua managerialità, è essenziale se non indispensabile.

Nasce una cordata sotto l’egida di Diodato Scala, di cui fanno parte diversi imprenditori costieri tra i quali Gaetano Maresca. Colui che, stravaganze del destino, ritroveremo solo poche settimane fa al fianco di Damiano Genovese e altri personaggi in convegni ed apparizioni pubbliche. Un bel quadretto di famiglia, non c’è che dire. Che però, data l’esiguità dei suoi seguaci, avrebbe potuto pure organizzare le proprie adunanze in una cabina telefonica senza impegnare bar o pub. La cordata pone una condizione ultimativa a Giglio: Castellano deve lasciare la società come vincolo imprescindibile per una chiusura dell’affare. Un boccone già amaro da mandare giù per Giglio, che col presidente storico dei rossoneri aveva instaurato un rapporto di amicizia e di collaborazione foriero di tanti risultati eccellenti. Il Sorrento era una realtà apprezzata e valorizzata per merito loro, di una diarchia che mai aveva vissuto momenti di tensione o incomprensione. Tuttavia si va avanti, si organizzano summit febbrili, si stanziano investimenti e si mette nero su bianco un piano di rilancio in grado di dare continuità al progetto. Si fissa anche una riunione dal notaio per formalizzare finalmente la nuova compagine societaria. Dei personaggi coinvolti nell’operazione, nessuno onorerà l’appuntamento. A parte uno: Giglio, rimasto, come poi dirà lui stesso, “col cerino in mano”. Strano, si dirà. Ma tristemente vero. Che poi siano comportamenti comuni, non solo nel mondo nel calcio, è un altro discorso. Nel 2010 una cosa simile successe a Pianura quando furono i fratelli Cafasso a lasciare: nei giorni successivi, alcuni personaggi facoltosi (o sedicenti tali) del quartiere giurarono che quella favola non sarebbe mai morta. Accadde il contrario, perché è frequente che parole ed azioni si dissocino quando si tratta di mettere realmente mano alla tasca. Castellano rimase, quindi, da solo, anche se successivamente avrebbe trovato in Mario Gambardella il partner migliore per andare avanti.

Giglio, nel frattempo, sarebbe approdato a Castellammare in tandem con Franco Manniello. Spinto da un’irrefrenabile voglia di fare calcio. E di farlo lì dove c’era una piazza che lo reclamava e lo acclamava. Le passioni, si sa, non si silenziano. E nessuno può sindacarle. Fa nulla che, nell’isola degli smemorati, si sia poi dimenticato che lo stesso Giglio avrebbe garantito, personalmente, iscrizione e fideiussione in vista della stagione successiva. Che non avrebbe chiesto un euro per l’alienazione del proprio 50% e che avrebbe lasciato nelle mani di Castellano una società senza debiti (e vabbè, nel decennio dei fallimenti a grappoli, è stravagante anche questo). E che in definitiva tutti questi dettagli, come lui stesso ama dire pubblicamente, siano oggi a conoscenza dei “vivi” e non dei “morti”. Ovvero di quei personaggi che a suo tempo dissero di voler scendere in campo prima di riprendere repentinamente la strada degli spogliatoi forse per evitare pericolosi colpi di sole vista la calura estiva. Sportivamente, anche in terra stabiese Giglio avrebbe rispettato programmi e ambizioni che si era imposto. “La serie B? Continuiamo a crederci. Altrimenti, cosa ci staremmo a fare?”: quest’azzardo era del settembre del 2009, con i gialloblù che che erano appena ripartiti dalla Seconda Divisione dopo la retrocessione. Il resto è storia nota. Sta sugli almanacchi, come il passato e il presente delle sue varie gestioni calcistiche che ora si legano con un filo rosso alla rinascita del Sorrento rinominato Football Club. Con buona pace di sherpa, camerieri e finti marescialli aspiranti dirigenti sportivi. Per i quali, auspicandone la guarigione completa, vale sempre l’aforisma di Wilde.

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