SERVIZIO A CURA DI MAURIZIO LONGHI

Erano passati giusto 40 anni da quell’unico campionato in cui si conquistò la serie B. Nel 2010-2011, il pensiero andava anche al 1970-1971. Quel Sorrento si aggiudicò la volata con la Salernitana e approdò tra i cadetti, dopo quarant’anni si presentava la stessa possibilità. Tra la cadetteria e i rossoneri poteva essersi solo l’ostacolo granata, ma i corsi e ricorsi storici si arrestarono sulla sponda scaligera. La premessa è che quel Sorrento doveva vincere il campionato che poi incoronò il Gubbio, così la promozione doveva passare dagli spareggi. In semifinale c’era da affrontare l’ostacolo Verona. L’amarezza per non aver chiuso il girone al primo posto era edulcorata dall’entusiasmo di giocarsi partite in cui era in palio il grande sogno di riconquistare quella categoria tanto anelata, che rappresenta solo una piccolissima parentesi di un anno nell’emozionante storia del calcio sorrentino. E il sogno cadetto passava attraverso due partite contro una squadra che, in passato, si era issata sul tetto del campionato italiano. L’andata giocata in casa dell’Hellas finì 2-0 in favore dei Mandorlini boys, ma era tutto rimediabile vincendo al “Campo Italia” con lo stesso risultato. In quei giorni si respirava un’aria particolare, ci si sentiva pronti per scrivere la storia. In quel 5 giugno 2011, si paralizzò la terra delle Sirene. Quasi il Gotha del calcio campano confluì in Via Califano. C’era anche il Pampa Sosa, attuale tecnico del Sorrento, che ha ricordato quella partita proprio presentandosi alla piazza lo scorso agosto: “Vorrei che ritornassero quei momenti, quando ebbi l’impressione che ci fossero 15mila persone”.

Ecco cosa significa far sognare i sorrentini. C’era un’atmosfera magica, la curva era piena e tutta colorata di rossonero quando, ad un certo punto, si stagliò un po’ d’azzurro. Un modo per provocare i tifosi giunti dalla città di Giulietta, definita proprio dai napoletani incline ad attività professionali non edificanti sul piano della moralità. Bastarono 6′ di gioco perché il sogno si avvicinasse ulteriormente: l’incornata di De Giosa aveva fatto esplodere tutto lo stadio. Erano passati quaranta anni dall’unica apparizione tra i cadetti e, mai come in quel momento, si era stati così vicini al sogno di ritornarci. Ci facciamo dire proprio dall’autore del gol, Roberto De Giosa, cosa provò in quel momento: “Fu una sensazione bellissima, dovevamo recuperare il 2-0 dell’andata e il nostro obiettivo era quello di sbloccare subito il risultato. Poi ebbi un’altra ghiotta occasione che non riuscii a capitalizzare, sarebbe stata una apoteosi. Peccato che subimmo il gol del pari a fine primo tempo e calammo mentalmente, la rete degli scaligeri ci tagliò le gambe e non era facile riprendersi in quel momento di grande sconforto”. Probabilmente quei minuti intercorsi tra il vantaggio di De Giosa e il pari di Berrettoni sono stati i più belli, i più magici, come se si fosse sintonizzati con la serie cadetta attraverso le parole di una celebre canzone: “A un passo dal possibile, a un passo da te!”. Chiediamo al difensore pugliese cosa si dicessero in campo dopo l’1-0 ad inizio gara: “Sai, quando sblocchi subito il risultato, ti guardi in faccia e dici: “dai che ce la facciamo”. C’era una grande carica che ci veniva trasmessa anche dalla gente presente allo stadio. Ripeto, avevamo preparato la partita per fare un inizio sprint e passare in vantaggio. Capitò proprio quello che ci auguravamo, fu una gara aperta perché loro ebbero delle occasioni per pareggiare prima e noi sfiorammo il 2-0, purtroppo, quel gol subito poco prima dell’intervallo fu un’autentica mazzata. Iniziare tutto daccapo con meno tempo a disposizione, ci rese poco lucidi e non riuscimmo a riprenderci”. Era una gara speciale, non come tutte le altre. Che aria tirava prima, durante e dopo quel match? “All’inizio c’era un po’ di tensione perché era la partita della vita, ci giocavamo un campionato intero. Poi in campo eravamo carichi al massimo per fare qualcosa di grande, sbloccammo subito la partita ma, dopo il pari, sentimmo franarci il mondo addosso. Mentalmente eravamo stravolti e ricordo l’amarezza che c’era già in campo per poi passare negli spogliatoi. Che peccato perché avevamo lavorato una stagione intera per raggiungere quell’obiettivo. In settimana lavoravamo tanto e bene, quindi, non farei la caccia ai responsabili, la verità è che fu un vero peccato non salire di categoria”.

Ripensando a quel campionato, ci si rammarica ancora per non averlo chiuso al primo posto. Quel Sorrento era una corazzata, e ci facciamo dire da uno dei pilastri perché sfumò il sogno della promozione diretta: “Avevamo tutte le carte in regola per vincere il campionato, ma pagammo la discontinuità di risultati in trasferta. In casa, in qualsiasi modo, riuscivamo ad avere ragione dei nostri avversari, ma lontano dalle mura amiche non sempre eravamo impeccabili. Diciamo che una squadra che vuole vincere il campionato, deve avere lo stesso atteggiamento sia in casa che fuori. A noi non era così, il Gubbio approfittò di questa nostra mancanza. Poi i play off sono sempre una lotteria, è difficile anche pareggiare le quattro partite, non si sa mai cosa possa succedere e noi fummo penalizzati da tanti aspetti”. Ci incuriosisce quest’ultima battuta. I tanti aspetti che contribuirono a defenestrare il Sorrento dalla lotta per la cadetteria. A De Giosa chiediamo di approfondirci l’ultima osservazione: “Se dobbiamo iniziare dai play off, allora farei un accenno anche alla gara d’andata. Ci trovavamo in uno stadio di massima serie e tenemmo testa agli scaligeri, purtroppo l’arbitraggio lasciò un po’ a desiderare. Non voglio assolutamente ingenerare illazioni, ma il fatto di essere una piccola piazza al cospetto di un’altra dal grande blasone indusse l’arbitro a prendere decisioni discutibili. Faccio un esempio banale: se al posto nostro ci fosse stato, chessò, il Taranto, magari il direttore di gara ci avrebbe pensato di più prima di fischiare quel rigore. Anche perché un conto è arrivare alla gara di ritorno sapendo di dover recuperare un solo gol, un altro è quando ne sono di più, sai di dover sostenere il doppio dello sforzo a livello sia fisico che mentale. E poi mi permetto di aggiungere che l’assenza di uno come Paulinho, che aveva fatto la differenza in ogni partita, ci penalizzò tantissimo. Anzi, se l’avessimo avuto a disposizione, sarebbero cambiate le cose e ora, probabilmente, staremmo parlando di altro”. Comunque, sebbene non si tagliò il traguardo anelato, furono campionati caratterizzati da un entusiasmo trascinante. Si parlava di grandi ambizioni, ci si sentiva protagonisti e orgogliosi di rappresentare un Sorrento da ribalta anche nel calcio e non solo per le sue bellezze. L’attuale difensore della Reggiana conserva un dolce ricordo della sua permanenza in costiera: “E’ stata una esperienza bellissima, c’era sintonia tra la società e la gente, poi ho lasciato tanti amici a Sorrento con cui, di tanto in tanto, mi sento ancora. Peccato per l’epilogo di quell’anno, la nostra rosa era formata da giocatori importanti, poi dopo sono arrivati tempi più cupi. Ciò, secondo me, è stato dovuto non tanto dal non poter più investire come prima sul piano economico, ma dalle scelte sbagliate che poi si pagano caro. Bisogna sapere scegliere chi acquistare, quando si ha un cospicuo budget da investire chiunque può fare grandi operazioni. Prendo l’esempio della Cremonese che, lo scorso anno, ha investito fior di quattrini per allestire un organico in grado di puntare al salto di categorie mentre ora, ridimensionando le spese, si ritrova invischiata nei bassifondi. Ma mi smarco dalla teoria secondo cui bisogna alleggerire le casse per costruire grandi organici, c’è bisogno di saper individuare gli elementi adatti e i giovani da scoprire”.

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